Josip Kremenić si definiva da sempre “campagnol” (contadino). Il suo amore per la terra si manifestava nella cura della particella con tutte le sue componenti: terra, piante, muri, barbacani e masiere. Capita spesso che la vicinanza giornaliera agli aspetti comuni del nostro ambiente ai quali siamo naturalmente abituati ci faccia perdere la prospettiva dell’altra dimesione di carattere generale che include una visione storica, architettonica e culturale di grande valore. Josip Kremenić aveva percepito l’importanza culturale dell’immenso lavoro che i contadini di Cherso avevano portato a termine e da tempo aveva nutrito il desiderio di tramandare conoscenze, dare nomi e cifre all’enorme fatica durata secoli.
Quanto segue è la trascrizione integrale di un testo da lui interamente elaborato dove il mio contributo si limita ad un semplice intervento redazionale. Dopo aver ottenuto dai famigliari il consenso alla pubblicazione, mi sembrava giusto e doveroso che questo lavoro venisse in qualche modo portato a conoscenza di un pubblico più vasto perchè unico, genuino, fatto con diligenza e da persona del mestiere. Spero inoltre che questa pubblicazione possa rendere omaggio ad una persona che con amore ha portato avanti una lunga tradizione agricola e culturale.
Lo spietramento a Cherso
Lo studio particolareggiato dei terrazzamenti a Cherso è stato focalizzato sulla zona degli oliveti adiacente il centro cittadino e copre un’area di 1.347 ha che si estende da Sv.Petar a sud (nel Vallone di Cherso) fino a San Biagio a nord per una lunghezza costiera di 19.000 m., alla quale vanno sottratti 4000 m. situati nella parte interna della baia di Cherso che comprende il porto, la marina, e le rive turistiche. La lunghezza del confine interno (verso la collina) misura 19.500 m. La circonferenza della zona sotto osservazione risulta quindi della lunghezza di 35.500 m. Il totale della superficie è stato diviso in sette zone che rappresentano caratteristiche diverse per intensità di coltura e quantità di terrazzamento.(Figura 1)
Lavorazione del terreno
Dalle conoscenze fino ad ora acquisite si può dedurre che la maggior parte della superficie, ora coperta da oliveti, quattro o cinque secoli addietro fosse adibita a pascolo. Il terreno in questione era terreno vergine (novina) prima mai reso coltivabile e per lo più di qualità alquanto scadente.
La trasformazione da pascolo a terreno coltivabile richiedeva lo scasso totale del terreno, modificando in tal modo radicalmente la natura stessa del suolo. Durante l’operazione di scasso bisognava contemporaneamente aver cura di eseguire un lavoro di ricomposizione e livellamento tenendo conto delle caratteristiche morfologiche del terreno. Da sempre tutta quest’opera è stata praticata manualmente, anche quando essa richiedeva interventi estremamente faticosi.
Il lavoro di preparazione del suolo si svolgeva in diverse fasi:
1. Estirpare dal terreno tutta la vegetazione esistente
2. Picconare tutta la superfice in modo da poter dividere i sassi dalla terra. Lo scasso veniva di solito effettuato su terreni con una pendenza che variava dal 5% al 30% il che richiedeva, in difesa dalle acque piovane, l’attuazione di opere adeguate e sicure tali da salvaguardare la poca terra già separata dai sassi.
3. Eseguito il lavoro di separazione dei sassi dalla terra si procedeva alla costruzione del muro a secco che doveva essere alto in proporzione a quanto richiesto dalla pendenza del terreno. La terra ricavata veniva a sua volta ammucchiata dopo che il muro di sostegno era stato eretto. Muro dopo muro venivano costruite a Cherso, con nel mezzo la terra raccolta ed accumulata, le terrazze dette barbacani.
La superficie così trattata viene trasformata da suolo, per secoli rimasto inalterato, in paesaggio composto con arte e sapienza, magistralmente strutturato nei suoi dettagli, e ben delineato nelle sue caratteristiche architettoniche. Ci meraviglia ancora una volta il fatto che, proprio intorno alla città di Cherso, nessun documento sia stato redatto e nessuna notizia porti testimonianza delle ragioni e dei tempi di questa trasformazione che rappresenta il più grande ed interessante oliveto delle isole dell’Adriatico.
Entità e caratteristiche dello spietramento.
Pur essendo privi di una documentazione basata su fonti storiche attendibili possiamo egualmente sostenere che per l’attuazione di un’opera di queste dimensioni fossero indispensabili alcuni requisiti:
1. Un terreno di libero accesso, disponibile alla coltivazione
2. Una manodopera presente, garantita ed interessata
3. Un piano di attuazione concreto, definito negli indirizzi e completo; che tenesse cioè conto dei vari aspetti ad esso connessi come la parcellazione del terreno, il tracciato e la costruzione delle varie infrastrutture stradali ed altre opere minori .
Con i presupposti elencati possiamo, mediante un calcolo approssimativo, delineare le dimensioni e l’entità del lavoro compiuto sull’area in questione, basandoci su stime riferite a valori mediani non tenendo conto, in questa fase della ricerca, delle particolarità specifiche delle piantagioni che presentano notevoli differenze sia rispetto a superficie coltivata come alla quantità del materiale pietroso rimosso.
Dallo scasso eseguito su tutta la superficie del terreno in questione – rimosso ad una profondità che varia dai 10-30 cm con una media calcolata di 20 cm- si ricava una quantità di sassi e terra pari a 0,20 m³ per metro quadro.
Sulla coltura ad oliveto adiacente alla città di Cherso che si estende su superfice pari a 1288 ha, risulta che la rimozione di sassi e terra in quest’area equivale a 2.576.000 m³ (12.880.000 m² X 0.20 m³ per metro quadro). Si stima che 1m³ di pietrame e terra corrisponda al peso di 15 q (1.500 kg).
Il totale della cubatura del materiale spostato ottenuto dalla lavorazione del terreno richiede un ulteriore analisi per venire a capo:
– dell’entità della terra ricavata e separata dai sassi, cioè l’estensione del terreno (superficie) coltivabile
– dell’entità della superficie coperta dalle masiere.
A tal proposito sono state elaborate due versioni: una basata sulla valutazione fatta dal Prof. G. Cavallini nel 1900 (Lettera agli Aggricoltori di Cherso con altri scritti 1 Ottobre 1900) ed una tutta mia (J.Kremenić) nel 2013.
Cavallini, dei 1288 ha 27/40 pari a 870 ha cioè 8.700.000 m² sono terra coltivata 8.700.000 m² x 0,15m (profondità media della terra lavorata) sono terra coltivata. I picconatori (gli zappatori) , quindi hanno dovuto rimuovere nella zona ad oliveto 1.305.000 m³ (8.700.000 m² x 0,15 m di terra e pietrame.
Dei 1288 ha, 13/40 pari a 418 ha, cioè 4.180.000 m² sono coperti da masiere . La differenza fra la quantità totale del suolo rimosso e quello limitato al terreno coltivabile è secondo Cavallini ( 2.576.000 m³ – 1.305.000 m³ ) di 1.271.000 m³
Kremenić, basandosi su osservazioni in loco più accurate ottiene un risultato differente. Sulla superficie di 1288 ha. la zona coltivabile è di 23/40 pari a 741 ha. L’opera dell’uomo, ha dissodato (7.410.000 m² x 0,15 m); 1.111.500 m³
Sulla superficie dei 1288 ha. la zona è coperta per 17/40 pari a 547 ha da masiere. La differenza fra la totale quantità del suolo e quello definito come terreno coltivabile (2.576.000 – 1.111.500) è di 1.464.000 m³.
Nella sua verifica J.K remenić dà un maggior risalto alla diversità dei manufatti pietrosi che, in certe località, sono particolarmente frequenti ed alquanto consistenti tanto da diminuire l’estensione dell’area coltivabile.
Indizi-testimonianze di come nascono Le Graje
Tutte le superfici dei terreni messi in produzione agricola (da secoli addietro) erano divise in modo uguale e in particelle chiamate a Cherso: “GRAJE”,
lavorate allora come orto, olivo o vigna. Pare giusto e logico che la parcellizzazione del terreno in graje, come quella del tracciare le strade, fosse parte di uno stesso piano. Un piano unico, che poteva essere fatto solamente dal comune. La costruzione delle strade veniva fatta da tutti coloro che erano in possesso di una graja in una determinata zona.
Una regola da rispettare era quella che prescriveva come dovevano essere fatti i masieroni (menik) dove si ammucchiavano tutti i sassi di troppo estratti durante lo scasso del terreno. I muri delle graje fatti dalla parte della strada dovevano essere sicuri, belli e di lunga durata.
Con questo piano (da questa pianificazione) ben eseguito nel tempo ed accettato dai lavoratori (pastori, agricoltori) Cherso cambia nella sua apparenza e prospettiva a tal punto da potersi definire unica nell’Adriatico e forse anche nel Mediterraneo.
Le graje sono di diversa grandezza e facili da individuare nel paesaggio chersino (v.foto – Fig.2) perchè limitate ai lati da due imponenti ammassi di pietre detti menik (masieroni). La dimensione della graja dipendeva dalla posizione, dalla fertilità, dalla pendenza del terreno ed era correlata di solito al numero delle persone che in ciascuna famiglia erano in grado di dedicarsi all’agricoltura; più grande il numero dei lavoratori maggiore la superficie della graja a loro affidata. Non tutte le graje erano della medesima qualità. Alcune erano più ricche di suolo fertile altre di roccia viva. La quantità di lavoro necessario per lo spietramento era proporzionale alla quantità di “pietre morte” nel terreno, al contrasto alla “pietra viva” cioè la roccia. Nella graja stessa esistevano differenti gradi di fertilità fra il terreno più a monte della pendenza della graja e quella della parte inferiore con un suolo più profondo e fertile e con una propria terminologia “podenek” (parte di sotto) più adatto alla coltivazione dei legumi in simbiosi con l’olivo. Il podenek è, come area di coltivazione, presente nel 90% delle graje, Per tali ragioni la superficie delle graje variano dai 4000 ai 10.000 m² ed oltre con un valore medio di 7.000 m². La graja rappresenta la matrice con la quale il terreno da coltivare è stato suddiviso fra i piccoli agricoltori di Cherso.
Dalla superficie coltivata ad olivo di 1.288 ha, cioè 12.880.000 m² divisa per l’area media di 7000m² per graja si deduce che nel territorio in questione sono state suddivise ben 1840 graje, valore che a prima vista pare quasi impossibile.
Le 16 graje della tabella 3. in questione sono state prese a caso da diverse zone che circondano la città di Cherso. Il numero catastale della graja è stato riportato per facilitare l’ubicazione, ma non corrisponde al numero delle particelle che essa in realtà contiene e che è di gran lunga maggiore. La superficie totale ammonta a 112.991 m² che divisa per il numero delle graje dà un valore medio di 7061 m² per unità.
Delle 1.840 graje conteggiate il 75% di esse sono munite di un menik (masierone) per un totale di 1.350 unità.
La lunghezza di ognuno di essi varia tra i 10 e i 70 m con un valore medio di 40 m.
La larghezza fra i 4 m e gli 8 m (mediana 6 m). L’altezza fra 1 m e 2 m (mediana 1,50 m).
Moltiplicando il numero dei menik con la media aritmetica della loro lunghezza (1.350 x 40 m) risulta che la loro estensione totale è di 54.000 m. Il loro volume è pari a 485.000 (54.000 x 6 x1,50) m³ di pietre.
Tale cubatura copre una superficie di 32,40 ha ed è il 2,5% dell’area totale di 1.288 ha.
Nelle graje venivano eretti dei muri-barbacani (che formano un terrazzo) ad una distanza media di 10 m uno dall’altro e di dimensioni diverse sia quanto a larghezza che altezza mentre in lunghezza si adeguano allo standard delle graje che in media risulta essere di 70 m. Da un calcolo sommario la lunghezza totale dei barbacani ammonta approssivamente a 1335 km. pari ad una cubatura di 1.865.500 m³ che copre una superficie di 5.149.600 m² pari a 0,36 m³/m². Il 42,4% della superficie totale (1288 ha) è coperta da barbacani, masiere.
Sembrerebbe giusto e logico supporre che la parcellazione del terreno in graje, come pure quella del tracciare le vie di accesso alle particelle, facessero parte di un’unica pianificazione diretta da un organo centrale come poteva essere il comune.
(Non possiamo affermare che fosse così poichè, come prima accennato non ci sono fonti che lo confermino. D’altro canto ciò potrebbe essere anche avvenuto nel corso di alcune dominazioni sotto le quali sono state fatte delle divisioni con il concorso delle autorità governative, ad esempio durante il dominio austriaco. È probabile che molte delle ripartizioni, dei lavori e delle regole a cui attenersi erano frutto di collaborazione e consuetudine per quella parte della popolazione che si dedicava all’agricoltura.) [N.d.r.]
La costruzione delle strade e dei sentieri venivano fatte da tutti coloro che erano in possesso di una graja in una determinata zona.
L’Architettura dell’oliveto di Cherso
In questo caso di che architettura si parla? Un lavoro fatto durante lo scasso del terreno da pascolo a terreno agricolo.
Tutte le pietre (sassi) grandi e piccole vengono separate dalla terra e messe al posto prescelto. E da qui nascono tutte quelle masiere che poi si dividono in: muro doppio, muro ugnolo, muro sostenitore, muro da barbacani (contro l’erosione).
Il muro doppio nella maggior parte dei casi si costruiva al fianco di ogni strada. L’altezza e la larghezza dei muri dipendeva dal terreno, dalla quantità e qualità delle pietre a disposizione e di conseguenza variavano da strada a strada. I muri delle strade erano quelli più ben fatti – con arte (forti, stabili), perchè erano visti da tutti e principalmente da coloro che conoscevano l’arte e le critiche non mancavano sia negative che positive. Grande lode ai veri artigiani.
Tutti i muri avevano due facce. Par logico che la faccia verso la strada dovesse essere più bella per appagare l’occhio dei passanti. Tutti questi muri dovevano essere costruiti su fondamenta stabili in grado da sostenere un notevole peso. Gran parte dei muri si basava su rocce, solamente in certi casi si doveva scavare fossi di una certa profondità tale da garantire stabilità e sicurezza.
I muri ugnoli: molto rari all’interno dell’oliveto e di scarsa importanza.
I muri sostenitori : eretti per sostenere il pietrame ed anche la terra in terreni pendenti. I muri sostenitori venivano costruiti a fianco dei masieroni (menik) in maggior parte bassi al contraio dei muri sostenitori delle strade che come quelli che limitavano le graje erano alti e forti.
I muri da barbacani : contro l’erosione, diversi uno dall’altro, addattati al terreno per salvaguardare la terra accumulata all’interno dei terrazzamenti dove venivano coltivati l’ulivo, il fico, gli ortaggi. Tutti i muri dovevano servire a facilitare il lavoro manuale e sfruttare al meglio la terra coltivata. Per i barbacani altezza e larghezza erano: 30/40 – 150 cm.
I menik / I masieroni
Tutto il pietrame che rimaneva dopo aver costruito i diversi muri veniva accumulato sui menik, quasi sempre ai lati della graja. In seguito al grande ammasso di pietre i menik assumevano enormi dimensioni. Alla base dei menik; come già osservato, si costruivano muri che impedissero lo scivolamento del pietrame. Il lavoro di trasporto del pietrame al menik era molto faticoso dato il pietrame che doveva essere deposto sulla sommità dell’accumulo che raggiungeva l’altezza di 2 – 3 m.
Gli agricoltori chersini oltre allo scasso del terreno costruivano anche i muri a secco. Era per loro un lavoro al quale dovevano adattarsi per necessità non potendo avvalersi, per questioni economiche, del contributo professionale dei maestri muratori.
I veri maestri venivano impegnati in opere grandi ed importanti (muri delle strade) che richiedevano particolare professionalità. I maestri venivano pagati meglio degli agricoltori; una loro giornata era valutata al doppio di quella di un agricoltore. Il bravo maestro era colui che sapeva innalzare e costruire un muro forte, sicuro, bello per l’occhio e funzionale; che sapeva costruire il muro usando pietre differenti (grandi, piccole, ovali, piatte, ecc.) ed era bravo di sfruttare al meglio il tempo a sua disposizione.
Per la riuscita di un lavoro fatto ad opera d’arte il maestro si serviva di due aiutanti uno dei quali era muratore esperto nell’organizzare il lavoro del gruppo. Selezionava e faceva stivare le pietre adatte in prossimità del muro da innalzare, per costruire le casette di campagna, per i gradini di accessso, per i pocivalić o le pietre per la cogulata delle strade.
Il secondo aiutante non muratore espletava un lavoro di manovalanza, portando le pietre più piccole usate come materiale di riempimento fra le due pareti (nel mezzo delle masiere doppie), nei barbacani e nei masieroni.
All’interno dell’oliveto le strade erano molte e di tipo diverso: principali che assicuravano il passaggio ad ogni graja e secondarie in percorsi più difficili ed impervi detti klanez.
Le strade principali erano quasi tutte covulate (acciottolate) mentre le secondarie lo erano di solito molto meno curate. Le strade oltre ad essere adeguate ed utili per i trasporti con animali da soma avevano lo scopo di salvaguardare il fondo stradale dall’irruenza delle acque piovane che a volte formavano veri e propri torrenti.
Gli stessi maestri muratori che costruivano i muri avevano anche il compito di acciottolare le strade eseguendo il lavoro preliminare come: preparare il fondo sul quale poi sarebbero sistemati i ciottoli e prendere in considerazione la pendenza del terreno.
Un’ipotesi di stima sulla quantità e durata del lavoro impiegato a Cherso per la trasformazione del terreno.
Sulla base di esperienze tramandate e conoscenze dirette si è calcolato che la trasformazione di 17,5 m² di terreno incolto richiedesse due giorni di lavoro. L’esperienza ci insegna inoltre che, a secondo delle difficoltà del terreno, i 17,5 m² sono il risultato di un valore medio ottenuto da un minimo di 15 m² ad un massimo di 20 m². Una giornata era destinata ad estirpare i cespugli ed allo scasso del terreno separando i sassi dalla terra, mentre la seconda era impegnata alla costruzione dei muri a secco (masiere) e per ammucchiare la terra all’interno delle terrazze. Le caratteristiche del terreno incidevano sulla durata della sua trasformazione.
Per semplicità di calcolo abbiamo stimato due giornate di lavoro a 8 ore ciascuna come necessarie per la trasformazione della superfice in questione. La giornata lavorativa effettiva di 8 ore veniva però a volte ad essere ridotta dato che tempi relativamente lunghi erano richiesti per raggiungere l’appezzamento, che in alcuni casi distava più di un’ora di cammino dal centro cittadino. Durante la stagione invernale le giornate corte, fredde o piovose impedivano o limitavano il lavoro nelle campagne, altrettanto accadeva durante certi periodi estivi a causa di giornate estremamente calde. La tecnologia agricola era costituita da arnesi primitivi quali il piccone a due punte, piccone a dente, zappa e scure. Al lavoro del singolo contadino in diversi casi venivano in aiuto i familiari; le donne quando libere dalle faccende domestiche usavano lavorare in campagna ed i giovanetti, che di solito non frequentavano la scuola, lavoravano anch’essi con i genitori. Nei calcoli che seguono non abbiamo tenuto conto di tutte queste eccezioni, abbiamo conteggiato esclusivamente le giornate lavorative di una singola persona. Nella realtà giornaliera e legata alla tradizione l’agricoltore esperto poteva calcolare in base alla sua esperienza professionale e per ogni appezzamento i “dan kopi” (giorni di zappa) necessari per tenere il suolo in produzione ed allo stesso tempo calcolare il valore del fondo stesso. Un terreno più fertile richiedeva un maggior numero di giorni di zappa rispetto ad uno più scarso poco profondo e quindi meno redditizio.
Sull’areale (1.280 ha) calcolato dal Cavallini, un secolo fa, si può stimare che se per 17,5 m² di terra incolta abbisognavano due giornate lavorative, per dissodare 1.280 ha sarebbero state necessarie ben 1.462.857 (12.800.000 m² : 17,50 m² = 731.420 m²; 731.420 x 2 = 1.462.857) giorni di zappa.
In soldoni, per rendere coltivabile un ettaro di terreno erano necessarie 1.142 giornate (1.462.857/1.280). Una graja richiedeva 896 giornate feriali.
Da una nostra valutazione, incentrata sulla conoscenza del nostro mondo isolano e sui dati demografici possiamo ricavare i tempi necessari per lo scasso del terreno durante 3 secoli (1550-1850),
Media lavoratori per famiglia: due 2.
Media giorni lavorativi per anno = 265 giorni (365 – 52 domeniche – 15 giorni festivi – 15 giornate di malattia – 18 giorni pioggia, temporali, calure ecc. = 100 giornate)
Giornate di lavoro per lo scasso totale dei 1.288 ha → 1.462.857
Anni di lavoro 300 nei tre periodi
1.462.857 : 300 = 4.876 giornate di lavoro in un anno
4.876 : 378 = 13 giornate lavorative per famiglia/anno
4.876 : 415 = 12 giornate lavorative per famiglia/anno
4.876 : 453 = 11 giornate lavorative per famiglia/anno
Dividendo il numero precedentemente nominato di 1.462.857 giorni di zappa per dissodare 1.280 ha di terreno incolto durante 300 anni, il quoziente che risulta è di 4.873 giornate feriali per anno. La distribuzione equa di questo valore tra le 415 famiglie d’agricoltori si riferisce ad ogni focolare ricco di due buone braccia, circa 12 giorni di zappa all’anno.
Nella detrazione di 100 giornate in un anno, dovuta alle festività, alle giornate feriali perse per malattia o eventi meterologici avversi, non sono state conteggiate le giornate dedicate ai lavori collettivi, rabote, come pure quelle devolute ai possedenti, sotto i quali, periodicamente lavoravano come mezzadri e/o braccianti. Prendendo in considerazione pure queste evenienze, il numero dei “dan kopi” dedicato al proprio appezzamento per lo scasso del terreno o la costruzione delle masiere sarebbe ancora di minore entità.
Piantagione degli olivi
Una volta scassato il terreno si procedeva alla piantatura degli olivi. Ogni pianta richiede circa 40 m² di terreno (4,75 giornate per sistemare il terreno). Su ogni ettaro si potevano teoricamente piantare 250 alberi che corrispondono a 175 per graja. In totale durante i 300 anni osservati sono stati piantati 320.000 olivi.
La lunghezza del periodo stimato a tre secoli ed il numero delle piante coltivate sono stati presi in questa entità poichè riteniamo che la maggior parte di questa coltura sia maturata in piena dominazione veneta e poi austriaca (1550 – 1850), per raggiungere, nel 1900, la rilevante cifra di 322.000 olivi (In questo calcolo la zona VII è stata tralasciata perchè da tempo non più coltivata essendo difficilmente raggiungibile ed anche per adeguarci al calcolo del Cavallini che si basava sulla superficie di 1.288 ha).
Non è da escludere l’ipotesi che molti ulivi sia selvaggi che domestici siano stati presenti nel paesaggio chersino prima del periodo veneziano, ma la loro quantità ed estensione resta difficile da calcolare. La notevole diminuzione dell’area coltivata e del numero degli olivi durante quest’ultimo secolo è dovuta al forte calo demografico nell’isola. L’emigrazione si è fatta fortemente sentire già agli inizi del XX secolo, e durante lo stesso periodo molti agricoltori hanno lasciato le campagne per dedicarsi ad occupazioni alternative meglio rimunerate come la navigazione o la pesca. Lo spopolamento dell’organico agricolo è culminato nel dopoguerra con l’esodo massivo verso l’Italia, le Americhe e l’Australia.
Le specie di olivo presenti a Cherso sono principalmente tre: Simjaca, Plominka, Rosuja. L’80 per cento della produzione olearia si ricava dalla simjaca (leggi “simiazza”), pianta autoctona il cui frutto genera gran quantità d’olio di alta qualità. La simjaca prospera in terreni diversi; predilige quelli meno fertili, frequenti sulla nostra isola; più il terreno è infruttuoso più la “simjaca” fruttifica. La Plominka è ritenuta anch’essa autoctona, poichè a memoria d’uomo è stata sempre presente nell’ambiente chersino. In realtà essa proviene dall’Istria e precisamente da Plomin (Fianona). Il 15% dell’olio deriva da questa pianta. Quest’olivo si contraddistingue per una maturazione precoce del frutto e ciò allunga ed agevola il raccolto. La Rosuja infine occupa il 5% della produzione, è considerata anch’essa autoctona.
La produzione totale di olio a Cherso può essere valutata indirettamente dal numero delle pile di pietra in possesso delle diverse famiglie. Nel 1964, quando era ancora possibile inventariarle, un gruppo di agricoltori chersini: (Karvin Gaspar, Purić Josip, Bunićić Anton, Ferlora Anton, Susić Jure, Negovetić Jakov, Medarić Frane e Kremenić Josip) eseguirono un’indagine “porta a porta” sulle pile residue e, solo in parte stimate. Tra le due guerre Cherso città includeva 950 numeri civici che a loro volta indicavano il numero delle famiglie residenti nel capoluogo. Si suppone che nello stesso periodo 450-500 famiglie avevano in loro possesso una media di tre pile di differente capacità per famiglia.
Ciò che rimane affinchè la ricerca sia completa è conoscere la provenienza di questi contenitori di dimensioni alle volte molto notevoli sia quanto a capacità, peso e fattura se si considera che erano sottratti e scavati da massi enormi di roccia intera, ma le cirsostanze attuali non ce lo permettono.